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giovedì 3 gennaio 2013

VITA IN CONDIZIONI ESTREME: BATTERI ESTREMOFILI


Un estremofilo è un microrganismo che sopravvive e prolifera in ambienti proibitivi agli esseri umani, per la alta o bassa temperatura o per l'alta acidità o alcalinità o salinità o radioattività. Alcuni estremofili erano noti già dagli anni cinquanta, la ricerca si è intensificata quando sono stati scoperte tracce di vita microbiotica in ambienti considerati, una volta, sterili. Un altro incentivo che ha allettato il mondo della ricerca è costituito dalle possibili applicazioni industriali. Interessano soprattutto i catalizzatori biologici, o enzimi, che aiutano gli estremofili a replicarsi in condizioni difficili.



Quattro miliardi di anni fa
 
Nel 2001 i ricercatori del Cnr e dell'Università di Napoli, Bruno D'Argenio e Giuseppe Geraci, docenti di geologia e biologia molecolare, hanno scoperto all'interno di dieci meteoriti dei microrganismi il cui corredo genetico è leggermente diverso da quello delle circa 28 mila specie di batteri terrestri conosciuti. Questi organismi, molto simili ai batteri da noi conosciuti,  sono stati trovati dentro meteoriti di 4,5 miliardi di anni, scoperta che dopo esami e cauti accertamenti potrà venire confermata.
Gli studiosi dell’Università di Napoli e dell’Istituto Geomare del CNR, affermano che la probabilità che i campioni siano stati contaminati da batteri terrestri è molto bassa. Non si possono ignorare i dubbi che molti scienziati hanno sollevato dopo la rivelazione di queste scoperte, cioè che sia difficile affermare con certezza che i campioni di meteoriti non siano stati inquinati dopo essere caduti sulla superficie terrestre da batteri terrestri.
I cristallomicrobi hanno le stesse caratteristiche di altri batteri già conosciuti e molto studiati negli ultimi 40 anni: i batteri estremofili. Come dice la parola stessa, questi microrganismi sono capaci di vivere e riprodursi in condizioni ambientali che per la maggior parte degli organismi sarebbero proibitive. Alcuni di questi particolari batteri appartengono al gruppo degli archebatteri, collocati nel tempo all’origine della vita sulla terra.

“Batteri alieni”
I “batteri extraterrestri” scoperti nei meteoriti conservati nel museo Mineralogico di Napoli sono stati clonati e si riproducono in abbondanza nelle provette dei laboratori dell’Università Federico II. Questi microrganismi dopo essere stati riprodotti, sono stati analizzati nel loro Dna ed è emerso un genere nuovo che non ha uguali con i 18 mila tipi di codice genetico finora conosciuti. Inoltre gli stessi tipi di batteri chiamati

cristallomicrobi” o “Cryms” sono stati trovati dai ricercatori campani anche in circa cinquanta campioni di rocce terrestri, alcune datate 3,8 miliardi di anni e prelevate in diversi punti del nostro pianeta sparsi in tutti i continenti. Gli studiosi hanno analizzato una cinquantina di diversi campioni di rocce sedimentarie, ignee e metamorfiche, di minerali e altri materiali solidi naturali; successivamente hanno estratto dalle rocce i microrganismi che a contatto con una soluzione fisiologica normalmente utilizzata nei laboratori di microbiologia diventano visibili al microscopio e si riattivano. Quando i batteri riacquistano le loro capacità metaboliche vengono clonati e studiati.



I batteri estremofili

Queste forme di vita microbiche sono chiamate estreme perché riescono a sopravvivere in ambienti sinora considerati impraticabili, potremmo dire sterili nel senso che nessun’altra forma di vita può svilupparsi. Riportiamo ad esempio alcuni degli ambienti dove i batteri estremofili vivono e si riproducono.
Nelle acque ad alta concentrazione salina si sviluppa bene Halobacterium salinarum, mentre il record di batterio più “salato” lo detiene Halophilic che è capace di vivere in acqua dove è presente il 30% di sale (ricordiamoci che l’acqua di mare contiene sale per il 3,5%).
Anche le rocce che si trovano ad alcuni chilometri di profondità sono un habitat ideale: a 3,2 km nel sottosuolo nei piccolissimi spazi interstiziali delle rocce vivono alcuni microrganismi capaci di tollerare livelli di pressione, di radiazioni e di calore elevatissimi. Mentre organismi appartenenti alla specie Bacillus infernus si trovano a 2.800 metri di profondità e alla temperatura di 75°C, lo Staphylothermus marinus colonizza ambienti sul fondo degli oceani dove le  temperature raggiungono i 115 °C. Al contrario la vita microbica rappresentata da Chroococcidiopsis e da Crypotendoliths vive in condizione ottimale fino a -15 °C, ma fra le rocce del continente antartico c’è chi tollera temperature di -50 °C.
Un’altra particolarità degli ambienti estremi è quella di essere caratterizzati da pH estremamente acidi o basici: il microrganismo più “basico” è Alkaliphic che vive in minerali alcalini con pH 11 depositati a seguito dell’evaporazione di gran masse d’acqua.
Alcuni ricercatori americani hanno voluto studiare gli effetti di un’intensa radiazione solare nel vuoto dello spazio su alcuni microrganismi: il primo tentativo è stato compiuto dalla NASA proprio per osservare fino a che punto le radiazioni solari siano in grado di influenzare le cellule viventi. Secondo le previsioni i raggi ultravioletti dovevano danneggiare tutti i batteri ad un’altitudine di 320 km, a parte il Deinoccocus radiodurans che vive normalmente nel suolo. Infatti  la scoperta di questi microbi risale al 1950 da parte di alcuni studiosi che mettendo a punto tecniche di conservazione dei cibi si sono accorti che era quasi impossibile ucciderli. S’ipotizza che questi intrepidi estremofili possano sopravvivere su altri pianeti dato che in condizioni sperimentali oltre che non aver paura delle radiazioni, non temono le alte temperature, la disidratazione e neanche agenti chimici capaci di distruggere il DNA.

Gli Archebatteri

Primordiali e resistenti

I generi di procarioti che vivono in habitat caratterizzati da condizioni estreme (elevata salinità, bassa concentrazione di ossigeno, alta temperatura e valori estremi di pH) sono raggruppati nella divisione degli archebatteri. Se consideriamo le caratteristiche dell’ambiente nel quale vivono, gli archebatteri appaiono un gruppo decisamente male assortito, mentre in realtà presentano molte caratteristiche comuni. Queste caratteristiche sono da cercare nella composizione della loro parete cellulare e nella sequenza delle basi del loro RNA. In particolare, la parete cellulare non è costituita da peptidoglicani, molecola caratteristica della parete di un batterio.
La divisione degli archebatteri viene scomposta in tre gruppi: i termoacidofili, i metanogeni e gli alofili stretti.
Gli archebatteri termoacidofili prediligono condizioni di elevata temperatura e pH acido e colonizzano ambienti dove pochi altri organismi sono in grado di sopravvivere. Il Solfolobus è un tipico rappresentante di questo gruppo di batteri che vive in prossimità di sorgenti sulfuree calde con temperature di 70-75°C e non sono in grado di sopravvivere sotto i 55°C. Ma questo batterio è anche capace di mantenere un pH interno vicino a 7, trovando ottimale per la sua crescita un ambiente acido con valori compresi tra 2 e 3.  Nelle solfatare dei Campi Flegrei a Pozzuoli (Napoli) sono stati scoperti alcuni archebatteri di questo tipo: Bacillus acidocaldarius e Sulfolobus solfataricus.
Gli archebatteri metanogeni sono procarioti che vivono in assenza di ossigeno e utilizzano la reazione che porta alla produzione di metano partendo dall’anidride carbonica come passo chiave del loro metabolismo. Un genere, il Methanopyrus, vive sul fondo dell’oceano vicino alle fratture vulcaniche e cresce a valori ottimali compresi in un intervallo di 110-84°C.
Gli alofili stretti vivono solo in ambienti estremamente salati dove pochi altri organismi possono vivere poiché si disidraterebbero fino alla morte. Alcuni di questi batteri trovano un ambiente ideale di vita nel Mar Morto dove la concentrazione salina è di circa 10 volte superiore a quella degli altri mari (340g/l).

Come mai le saline sono rosse?
Alcuni archebatteri alofili, amanti del sale, colorano di rosso le acque cristallizzate delle saline. Diverse specie di batteri tutti appartenenti alla famiglia delle Halobacteriaceae sono responsabili di queste colorazioni rosso-rosacee perché contengono nelle membrane cellulari dei pigmenti che derivano dal beta-carotene. Questi gruppi vengono studiati con attenzione perché sono potenzialmente utili in campo biotecnologico sia per produrre carotenoidi, sia per individuare enzimi attivi in soluzioni saline molto concentrate.

I fattori ambientali 

Le dimensioni e la densità di una popolazione è influenzata da diversi fattori che differiscono da un gruppo di organismi ad un altro. In generale, ad esempio, possiamo dire che l’intervallo di pH per uno sviluppo ottimale di alcuni batteri è compreso tra 6,5–7,5, ma sappiamo che esistono gruppi che si riproducono in ambienti acidi con pH anche minore di 4,5. Un pH acido rappresenta un fattore limitante per lo sviluppo della prima popolazione batterica che abbiamo considerato perché non permetterebbe la loro crescita e sopravvivenza. Infatti è importante il grado di tolleranza degli organismi rispetto a fattori come la luce, la temperatura, la disponibilità di acqua, la salinità o la disponibilità di ossigeno. Se qualche elemento essenziale è poco disponibile o qualche caratteristica ambientale è oltre i limiti della tollerabilità, non è possibile che avvenga una crescita della popolazione, anche se tutte le altre necessità sono soddisfatte. Consideriamo alcuni esempi. I batteri che vivono nelle regioni antartiche prosperano in intervalli ottimali di temperatura fra i -7°C e -20°C, mentre i batteri termofili che vivono in prossimità delle sorgenti termali si riproducono alla temperatura di 90°C. Rispetto alla presenza di ossigeno nell’ambiente, molti procarioti sono anaerobi facoltativi, cioè possono ottenere energia per vivere sia attraverso la respirazione cellulare che con la fermentazione. Altri (anaerobi obbligati) possono vivere solo con la fermentazione e, di conseguenza, la loro crescita è inibita dalla presenza di ossigeno nell’ambiente; all’altro estremo troviamo gruppi aerobi obbligati che sono incapaci di sopravvivere per prolungati periodi in assenza di ossigeno.

C’è vita anche nel sale! 
Un altro fattore ambientale è rappresentato dalla condizione di salinità delle acque e può essere limitante per la crescita di quasi tutti i batteri ma non rappresenta certo un problema per altri gruppi ipersalinofili. Nel periodo tra il 2001 e il 2004 sono stati monitorati e studiati quattro bacini del Mar Mediterraneo, situati a circa 100 km ad ovest di Creta, che si sono formati nel Miocene. Questi bacini sono caratterizzati da zone profonde 3000 m, dove le acque sono stagnanti e immobili, quasi prive d’ossigeno, con concentrazioni di magnesio circa 100 volte superiori a quello del Mediterraneo e alte concentrazioni saline (circa 470 g/l di cloruro di magnesio). Nonostante le caratteristiche inospitali di questi ambienti, sono stati scoperti batteri con un metabolismo adattato a concentrazioni saline tanto elevate. Un'equipe di ricercatori europei, nel quadro di una ricerca sugli ecosistemi microbici dei fondali marini, è all’opera per cercare di capire il funzionamento metabolico di questi organismi.


La ricerca

Lo studio della vita in condizioni estreme richiede l’impegno di diverse discipline della scienza come la microbiologia, la geologia e la biologia molecolare. I ricercatori sono interessati a scoprire le particolari capacità che i microrganismi estremofili hanno sviluppato per vivere e riprodursi in condizioni così ostili per tutti gli altri organismi. Inoltre gli estremofili hanno attirato attenzione anche perché sono in grado di produrre molecole che possono avere un ampio utilizzo, attraverso le biotecnologie, in diversi ambiti industriali (alimentare, ambientale, medico diagnostico e per sviluppare nuove terapie mediche).
Ad esempio, per comprendere quali sono gli adattamenti che consentono a Colwellia psychrerythraea di resistere al congelamento, alcuni scienziati hanno sequenziato e analizzato il suo genoma e scoperto che alcuni geni codificano il riempimento delle membrane cellulari  con acidi grassi che resistono al congelamento, composti di poliestere che fungono da riserve di energia e  enzimi alterati che funzionano anche nell’acqua salata gelida. Invece all’inizio degli anni ’80, con lo scopo di analizzare e replicare il DNA sia in diagnostica medica sia in medicina legale, si inizia a utilizzare un enzima termofilo e termostabile (Taq-polimerasi). Questa polimerasi era stata isolata dal batterio Thermus aquaticus scoperto dalle sorgenti calde del Parco di Yellowstone.
La capacità dei batteri metanogeni viene sfruttata per produrre biogas utile per il riscaldamento o per alimentare le cucine.


Dall'origine della vita al futuro

I procarioti sono il più antico e numeroso gruppo di organismi presenti sulla Terra: i primi fossili rappresentativi datano 3,5 miliardi di anni fa e queste antiche tracce indicano che era presente una considerevole diversità tra i procarioti anche nel periodo archeano. Questi organismi regnarono sulla Terra per più di 2 miliardi di anni adattandosi ai nuovi ambienti e ai cambiamenti che di volta in volta si verificavano e si sono diffuse in ogni habitat immaginabile sul pianeta, colonizzando anche altri organismi.
Oggi i procarioti sono diversi rispetto a quelli di 3,5 miliardi di anni fa e rappresentano il prodotto attuale di molte linee di evoluzione indipendenti che si sono separate da centinaia di milioni di anni. Infatti a partire da una comune eredità procariotica, le diverse linee hanno seguito vie di evoluzione separate e ognuna di esse si è adattata alla maggioranza dei cambiamenti dell’ambiente con un risultato tale che la diversità all’interno di ciascuna linea è maggiore rispetto alle differenze verificabili nell’ambito di altri regni.
Il gruppo dei procarioti comprende i batteri, organismi unicellulari, privi di nucleo e di altre strutture citoplasmatiche tipiche delle cellule eucariote.
Una delle ultime teorie che si sono diffuse sulle origini della vita è stata pubblicata sulla rivista Nature dal biologo molecolare James A. Lake. I suoi studi di genomica (la scienza del mappaggio, sequenziamento e analisi dei genomi, cioè dell'intero contenuto di Dna) gli hanno permesso di formulare un’ipotesi che compie un ulteriore passo avanti rispetto a quanto conosciuto fino ad adesso sull’argomento. Pare che 2 miliardi d’anni fa, la fusione di protobatteri (antichi microrganismi unicellulari fotosintetici) con alcuni archebatteri abbia dato origine al primo essere procariota multicellulare. Questa teoria attribuisce agli archebatteri un ruolo importante, che prima non era mai stato intuito, nel passaggio evolutivo dagli esseri unicellulari a quelli più organizzati multicellulari.
Oltre 1 miliardo di anni fa alcuni procarioti invasero organismi affini (o da questi furono inglobati) e stabilirono un rapporto parassita-ospite (o preda-predatore). Questo tipo di rapporto si è stabilizzato nel corso dei tempi evolutivi e ha dato probabilmente origine ai protisti, caratterizzati da cellule eucariote dotate di un vero nucleo.
Da un punto di vista tassonomico basato sulla natura della parete cellulare, i procarioti si distinguono in 4 divisioni: gli archebatteri, i batteri gram-positivi, i batteri gram-negativi e i micoplasmi.


a cura di Eliana Marchisio




I Batteri Estremofili sono così denominate perché riescono a sopravvivere in ambienti sinora considerati sterili come :
  • le acque ad alta concentrazione salina;

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    Halobacterium salinarum
  •  nelle rocce a migliaia di metri sotto la superficie terrestre a temperature di +75 gradi;
  • nelle rocce del continente antartico a temperature di -50 gradi;
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    Chroococcidiopsis
  • in acque acide (con Ph inferiore a 5 equivalente a quella dell'aceto diluito);
  • in acque molto alcaline (con Ph superiore a 9 equivalente a quello della calce).
  • nei pressi delle sorgenti idrotermiche sul fondo degli oceani (a temperature sino 115 gradi ).
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    Staphylothermus marinus

Una conferma che i primi abitanti della Terra erano di questo tipo viene oggi anche dalla genetica. Carl Woese ha condotto un'analisi comparata del patrimonio genetico dei microbi viventi. L'albero genealogico tracciato a conclusione dei suoi studi ha alla base proprio i termofili dai quali si sono poi formati gli altri tipi di batteri ed in definitiva tutte le successive forme di vita anche pluricellulari sino ad arrivare all'uomo. Tuttavia anche i batteri più primitivi risultano di una complessità tale da suggerire che derivino a loro volta da forme di vita più semplici. Si sta cominciando a pensare che la vita sulla Terra si sia presentata sotto forma di entità genetiche senza corpo come la molecola di R.N.A. Il rivestimento cellulare si sarebbe formato successivamente a protezione  dei geni e per migliorare le loro prestazioni nell'ambiente. In questa logica le piante e gli animali vanno visti come "corazze" che si sono evolute per proteggere i geni che continuano ad esistere, immortali, spostandosi di generazione in generazione attraverso le cellule sessuali e la riproduzione.

(WEB)


Batteri e radiazioni

In uno studio pubblicato recentemente sulla rivista Astrobiology e guidato dalla Ximena Abrevaya of Argentina's Universidad de Buenos Aires-CONICET, un gruppo di ricercatori ha esaminato dei microbi della famiglia "Haloarchaea" e li hanno confrontati a dei batteri resistenti alle radiazioni, come "Radiodurans D.", per cercare di vedere come sarebbero sopravvissuti alle radiazioni presenti nello Spazio esterno.

Lo studio pubblicato su Astrobiology inizia in questo modo: "l'ambiente extraterrestre è considerato letale per gli organismi, a causa degli elevati livelli di radiazioni, condizioni di elevato vuoto ed estreme temperature, che potrebbero avere un impatto ancor più rilevante sulle macromolecole come gli acidi nucleici, portando a tassi di elevata mutazione, danno cellulare e inattivazione. In particolare, le radiazioni UV sono state studiate - soprattutto - perchè provocano ingenti danni sulle cellule e in grado di determinare le condizioni di abitabilità altrove".

Essicato e danneggiato con radiazioni, uno dei microbi "Archaea", N. magadii (vedi immagine sopra), sopravvive a condizioni di Spazio simulato, quasi così come - afferma il documento dei ricercatori - i batteri resistenti alle radiazioni. La resistenza di "Archaea" rispetto ai batteri può essere spiegata "con un meccanismo più efficace contro la disidratazione, in generale presente in "Haloarchaea", a causa del loro adattamento agli stress ambientali causati dalle alte temperature e le concentrazioni di sale nel loro habitat naturale", afferma la studio.

Questo è il primo lavoro che riporta la sopravvivenza di "Haloarchaea" sotto condizioni interplanetarie simulate. E' stato utilizzato un flusso V-UV (radiazioni) simile a quello solare ad 1 Unità Astronomica e pressioni simili a quelle scoperte in bassa orbita terrestre o sulla superficie di Europa. Le curve di sopravvivenza sono state confrontate con il responso di "Radiodurans D.", un microrganismo considerato un ottimo candidato per sopportare le estreme condizioni che si trovano nello Spazio e sulla superficie di altri pianeti e lune.

Il prossimo passo sarà quello di simulare viaggi a lunga durata.


Fonte: ufoedintorni.blogspot.it


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